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La sicurezza privata cinese in Africa: un nuovo tipo di colonialismo?
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La Cina ha sempre rinunciato a dislocare le proprie forze armate per proteggere i suoi interessi economici all’estero, affidandosi a compagnie di sicurezza private non armate, in collaborazione con le forze locali. Attacchi di matrice criminale e terroristica hanno spinto il governo cinese ad affidare maggiori capacità militari alle proprie società private, facendo sorgere un dilemma per le popolazioni e i governi africani: se essere più sicuri o rischiare l’ulteriore subordinazione a una potenza straniera.
La sicurezza privata cinese in Africa: un nuovo tipo di colonialismo?, 29 May 2021
by Davide Lauretta / Photo credits: Africa Rivista
Con l’avvio degli ambiziosi progetti economici della nuova “Via della Seta” e della “Belt & Road Initiative” (BRI), la Cina ha incoraggiato la costituzione di compagnie di sicurezza private per la messa in sicurezza delle infrastrutture al di fuori dei propri confini e del personale coinvolto nella loro realizzazione. La natura privata di tali compagnie è la logica conseguenza della scelta del governo cinese di proseguire la propria dottrina di “non interferenza” negli affari interni di uno Stato, non schierando le proprie forze armate. La necessità di proteggere le proprie attività economiche all’estero è particolarmente significativa in Africa. La situazione sociopolitica e militare nel continente comporta numerosi rischi e minacce alla sicurezza. Per le suddette ragioni diplomatiche e di soft power, la Cina ha sempre vietato alle proprie compagnie militari private la detenzione di armi, preferendo siglare delle collaborazioni con le forze locali africane o l’esercito nazionale di un dato Paese del continente nero. Di norma, dunque, tali società di sicurezza forniscono servizi di raccolta di informazioni, valutazione dei rischi e prevenzione delle crisi, oltre che di protezione del personale da possibili sequestri e rapimenti. Tuttavia, l’avvenimento di attacchi di criminali e terroristici, la scarsità di risorse da parte delle milizie statali autoctone e l’aumento vertiginoso degli interessi commerciali cinesi hanno spinto il governo di Xi Jinping a rivedere le proprie posizioni sul tema, consentendo in certi casi maggiori poteri di natura militare alle compagnie private, alcune delle quali hanno iniziato ad armarsi e ad agire in maniera più autonoma in caso di pericolo, sia sulle rotte marittime che nei presìdi terrestri. Ciò crea un dilemma per le popolazioni e i governi africani in contatto con queste nuove milizie cinesi, che si trovano a scegliere tra l’opportunità di avere maggiore sicurezza da possibili attacchi da parte di organizzazioni criminali e terroristiche, largamente presenti nel continente, e l’elevato rischio di subordinazione a una potenza straniera.
Un tentativo di controllo?
La maggiore capacità operativa delle compagnie di sicurezza private cinesi e la costante crescita di progetti economici e infrastrutturali, nonché l’aumento significativo di lavoratori cinesi nel continente, hanno contribuito a instillare i sospetti che dietro l’apparente natura privata di queste società di sicurezza vi sia invece una velata ambizione da parte di Pechino di esercitare un controllo, anche politico, nelle varie aree interessate. Molte organizzazioni non governative africane e internazionali così come piattaforme panafricane indipendenti, impegnate nel dibattito politico, ritengono che questi presidi di protezione siano in realtà costituiti da reparti dell’Esercito popolare di liberazione o della Polizia dell’esercito popolare, sotto l’egida diretta del Partito comunista cinese. Ha contribuito sicuramente a rafforzare tale opinione la presenza di ex funzionari di tali forze di sicurezza governative all’interno delle compagnie di sicurezza private. Stando a questa ricostruzione, il governo cinese occulterebbe la verità sia per la già citata esigenza di non mostrarsi come forza imperialista facendo invece leva sul soft power, sia per evitare di essere ritenuto responsabile di eventuali fallimenti sul piano economico e infrastrutturale, preservando la propria immagine nonché la continuità dei propri interessi nel continente. L’opinione pubblica africana è infatti influenzata dal passato di schiavitù e dalla memoria collettiva delle azioni condotte da molti mercenari durante i conflitti post-coloniali; inoltre, gli ultimi cambiamenti in seno alle compagnie di sicurezza private cinesi presentano molte convergenze con i loro corrispettivi russi, presenti da più tempo in molti Paesi africani. Come se non bastasse, a partire dal 2020 la Cina è responsabile di un numero totale di progetti di costruzione in Africa maggiore di quello di Francia, Italia e Stati Uniti messi insieme: un dato significativo di possibili mire espansionistiche tramite attività commerciali, seppur non nell’accezione letterale del termine. Tuttavia, non vi sono elementi certi a sostegno di questa tesi. Al contrario, sono emerse anche riflessioni profonde sulla fedeltà e lealtà di queste compagnie verso il governo e il partito.
Divergenze di interessi
I numerosi profitti delle aziende cinesi potrebbero effettivamente costituire un motivo di divergenza dagli interessi strategici nazionali a favore di un perseguimento di interessi privatistici, di cui compagnie di sicurezza sarebbero complici, data la loro dipendenza economica dai successi delle compagnie in questione. Inoltre, la letteratura sull’argomento ha rivelato come siano state numerose le proteste dei veterani delle forze di esercito e polizia cinesi per la loro condizione di precarietà al termine del loro servizio: un dato che potrebbe confermare la possibilità di conseguire profitti anche a scapito degli obiettivi geopolitici del proprio Paese. Alcune ricerche hanno tra l’altro dimostrato come la Cina non abbia le capacità e la preparazione per far sì che l’Esercito di liberazione popolare sia dislocato in tutti i territori esteri, facendo pensare all’impossibilità che le compagnie di sicurezza private siano uomini stipendiati e comandati dai vertici militari del regime comunista cinese. E ancora, il fatto che molte di loro non abbiano una licenza d’armi potrebbe far pensare a una certa reticenza del governo di Pechino nell’attribuire eccessivi poteri a quest’ultime, contrariamente alla sola ipotesi del diplomatico principio di “non ingerenza”.
Quale futuro per l’intera “Africa cinese”?
Al di là di quale possa essere la reale natura di queste società, vi sono in ogni caso dei timori comprensibili circa l’integrità della sovranità statale e/o locale di alcuni territori africani: qualora fosse vera la tesi circa il carattere autonomo delle compagnie di sicurezza private, il rischio riguarderebbe la possibilità che il grande impatto dei progetti infrastrutturali alteri alcune dinamiche di potere e ricchezza, formando nuove élite straniere e nuovi vinti; nel caso di una effettiva dipendenza delle società dal governo cinese la minaccia principale riguarderebbe invece la possibilità per la Cina di decidere le sorti delle popolazioni del continente grazie alla sua capacità di influenza. La maggior parte delle azioni cinesi all’estero avviene infatti nel quadro di accordi bilaterali e non di linee guida multilaterali siglate a livello internazionale, quasi sempre normate da potenze occidentali e dunque invise al “gigante asiatico”: ciò comporta dunque l’elevato rischio che i governi africani sottostiano alle disposizioni cinesi, dato il potere economico di Pechino, negoziando accordi commerciali a proprio svantaggio e senza alcuna capacità decisionale e di controllo. Inoltre, i dibattiti della società civile africana in tema di sicurezza non tengono conto della distinzione tra mercenari, compagnie di sicurezza private di consulenza od operative. Essi vertono indistintamente sulla questione della crescente violenza commessa da questi gruppi armati contro i civili per interessi personali, un dato che spiega la maggiore preoccupazione nel continente in caso di un’apertura totale della Cina alla possibilità di fornire la licenza d’armi a tutte le società di sicurezza private, al pari delle corrispettive compagnie russe e occidentali.
Non tutta l’Africa è cinese
Alla luce di questi dibattiti, molte organizzazioni africane hanno avviato delle campagne di sensibilizzazione o addirittura di denuncia contro lo sfruttamento illecito di alcune risorse e tentativi di truffa ai danni delle popolazioni locali. Nel marzo 2020, la Zimbabwe Environmental Law Association (ZELA) ha chiesto al governo un rapporto dettagliato circa le disposizioni contrattuali e le attività inerenti alla centrale a carbone di Sengwa, un progetto da 3 miliardi di dollari, finanziato dal gruppo cinese Gezhouba, la cui sicurezza è coordinata dal China Security Technology Group.
Anche la Kenya Law Society si è battuta affinchè nel giugno 2020 l’Alta Corte del Kenya dichiarasse illegale il contratto della Standard Gauge Railway tra il governo kenyiota e la China Roads and Bridges Corporation, il principale cliente di DeWe (società di sicurezza privata cinese) nel Paese. In Ghana, alcuni attivisti ambientali hanno fatto causa al governo per bloccare un accordo che vedrà Sinohydro, il gigante cinese statale dell’energia idroelettrica e delle costruzioni, finanziare reti ferroviarie, stradali e di ponti in Ghana per un valore di 2 miliardi di dollari in cambio del 5% delle riserve di bauxite del Paese, sebbene il valore della risorsa mineraria potrebbe rivelarsi più alto dato che la quantità esatta da estrarre è difficile da accertare. Un’azione simile è stata condotta da gruppi della società civile in Guinea, i quali hanno lanciato una petizione contro un accordo da 20 miliardi di dollari che fornirebbe alla Cina l’accesso alle sue riserve di bauxite: un dato interessante dal momento che Pechino importa la metà del fabbisogno di bauxite interamente da questo Paese.
Negli ultimi anni si assiste dunque a una partecipazione attiva delle varie realtà no profit africane per il monitoraggio dei contratti che i singoli stati stipulano con le potenze straniere, Cina in primis: l’obiettivo è di preservare il più possibile la ricchezza interna al continente e garantire la sua crescita economica scongiurando il rischio di un nuovo tipo di colonialismo, maggiormente pericoloso in quanto più subdolo.
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