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Putin keeps jihadists at bay and ‘saves’ the Olympics
Following the ultimately peaceful Sochi Olympics, Giovanni Giacalone discusses the widespread security concerns which had surrounded the games.
Le Olimpiadi invernali di Sochi 2014 sono giunte al termine e quello che molti temevano e alcuni forse auspicavano non è accaduto. Non vi è stato alcun attentato di stampo islamista e nonostante le ripetute minacce di Dokku Umarov, leader dell’Emirato Islamico del Caucaso, i giochi si sono svolti nella più totale sicurezza.
Vladimir Putin aveva scommesso tutto su Sochi, la sfida sportiva più importante della storia della Russia dopo le Olimpiadi di Mosca del 1980, una spesa andata oltre i 50 miliardi di dollari e una nuova immagine per la Russia, quella di paese sicuro, affidabile, in grado di organizzare eventi internazionali di grande rilievo e capace di gestire le problematiche legate alla sicurezza interna.
Le Olimpiadi di Sochi erano da mesi sotto i riflettori dei media a causa della minaccia jihadista e in particolar modo negli Stati Uniti; il presidente dello U.S. House Committee on Homeland Security, Michael McCaul, aveva parlato della “più grande minaccia terroristica mai vista. David Satter, docente della Johns Hopkins, aveva definito Sochi una “zona di guerra” e una “potenziale catastrofe”, accusando inoltre i russi di non essere stati in grado di prevenire gli attentati di Volgograd del dicembre 2013.
Effettivamente le premesse non erano state delle migliori; nel luglio 2013 in un video messaggio Dokku Umarov, già noto per gli attentati alla metropolitana di Mosca del 2010 e all’Aeroporto Internazionale Domodedovo del 2011, aveva minacciato violenti attacchi durante le Olimpiadi. Nei mesi successivi la città di Volgograd è diventata bersaglio di diversi attentati da parte di terroristi legati all’Emirato del Caucaso. Il 22 ottobre una donna russa convertita all’Islam radicale, Naida Asiyalova, si è fatta esplodere su un autobus di studenti universitari alla periferia della città uccidendo 7 persone e ferendone una trentina. Il 29 e il 30 dicembre sono invece stati presi di mira la stazione dei treni di Volgograd e un bus in periferia, con un bilancio di 34 morti e più di 80 feriti.
In contemporanea il Dagestan e la regione di Stavropol sono diventati teatro di continui attacchi nei confronti delle forze di polizia, in molti casi con la strategia del “doppio colpo”, che consiste nel generare una prima esplosione o un attacco con armi da fuoco per causare un iniziale numero di vittime e poi detonare un ordigno nascosto all’arrivo dei soccorritori. Attentati messi in atto da gruppi di bande armate legate ad ambienti radicali, anche se alcuni analisti preferiscono definirli “banditi” o “comuni gruppi dediti ad attività illecite”.
A fine gennaio un nuovo video è apparso su un sito jihadista dagestano nel quale comparivano due individui armati che mostravano come preparare ordigni esplosivi e minacciavano cittadini russi e potenziali turisti olimpici. I due si definivano membri di un gruppo mai sentito prima nella zona del Caucaso, “Ansar al-Sunnah”, e alle spalle presentavano una bandiera frequentemente associata allo Stato Islamico di Iraq e il Levante. In realtà i jihadisti non sono riusciti ad andare molto oltre le minacce, i Giochi di Sochi si sono svolti in massima tranquillità.
Resta l’amarezza sulla limitata presenza di turisti stranieri, ma ciò potrebbe anche essere stata una conseguenza dell’allarmismo generato dall’Occidente piuttosto che di una reale minaccia all’incolumità dei presenti. E’ vero che ci sono stati gli attentati di Volgograd ma, esaminando bene il contesto, emergono alcune considerazioni importanti. Il perimetro di Sochi era stato efficacemente messo in sicurezza dalle autorità russe ed era praticamente off-limits ai terroristi i quali, consapevoli di ciò, hanno preso di mira gli unici bersagli veramente difficili da controllare e cioè i mezzi pubblici. Da notare che gli attentati hanno avuto luogo ben prima dell’inizio dei giochi e al di fuori del “perimetro d’acciaio”. I jihadisti evidentemente erano ben consapevoli del fatto che durante i giochi non sarebbero riusciti a portare a termine alcun attentato, nemmeno nei confronti di obiettivi “secondari”, ovvero non direttamente legati al contesto olimpico.
L’unica cosa che restava loro era un attacco in prossimità di Capodanno, su mezzi di trasporto che in quel periodo brulicavano di persone che si spostavano per le feste; questo è il massimo a cui potevano aspirare per riuscire ad attirare un po’ di attenzione a livello internazionale e magari sperare di boicottare la sfida olimpica russa. Forse inizialmente i servizi di sicurezza russi si sono focalizzati troppo su Sochi lasciando scoperti altri obiettivi esterni alla zona calda che potevano diventare un possibile bersaglio, ma è anche vero che difficilmente si possono controllare tutti i possibili siti a rischio in un’area così vasta. Non ci riuscirono nemmeno gli israeliani negli anni’90 dovendo monitorare un territorio ben più ristretto.
Bisogna però riconoscere che la risposta da parte delle autorità russe è stata immediata e piuttosto efficace; le varie strutture legate ai trasporti sono state messe in sicurezza, le attività investigative hanno portato all’arresto di numerose micro-cellule in diverse zone della Repubblica Federale e al sequestro di una gran quantità di armi da fuoco. In Dagestan le forze di sicurezza hanno dato il via ad operazioni di contrasto ai militanti armati con cadenza quasi quotidiana nelle zone di Makhachkala e Khasayvurt. Numerosi i jihadisti uccisi, diversi dei quali legati agli attentati di Volgograd, tra cui Jamaldin Mirzaev, noto anche come Abu Abdullah, a capo della milizia “Kadar”. Tra gli arrestati i fratelli Magomednabi e Tagir Batirov che, secondo fonti russe, avrebbero fornito supporto ad Asker Samedov e Suleiman Magomedov, gli attentatori di dicembre.
Resta poi il mistero sulla sorte di Dokku Umarov che, secondo quanto dichiarato dal presidente ceceno Ramzan Kadyrov, sarebbe morto in seguito a un conflitto a fuoco. L’intelligence di Grozny avrebbe infatti intercettato una conversazione nella quale alcuni leader religiosi dell’Emirato del Caucaso parlano della morte del loro leader e fanno riferimento a possibili successori. Mosca dal canto suo afferma che Umarov non può essere considerato morto senza essere in possesso di prove evidenti.
In conclusione, gli attentati “anti-Sochi” da mettere in atto con la “massima forza”, come minacciato da Umarov nel luglio 2013, non ci sono stati; i jihadisti del Caucaso sono riusciti a colpire tre volte Volgograd, episodi drammatici che hanno causato una quarantina di morti ma che i militanti hanno pagato a caro prezzo e senza riuscire ad intaccare significativamente le Olimpiadi Invernali. Una propaganda mediatica che fortunatamente non ha trovato alcun riscontro a livello pratico, un chiaro segnale che il jihadismo caucasico è seriamente in crisi. Sono lontani i tempi di Beslan e del teatro Dubrovka, quando la guerriglia islamista poteva realmente impensierire il Cremlino. E’ paradossale come il jihadismo del Caucaso sia riuscito a trovare maggior visibilità negli Stati Uniti con gli attentati alla Maratona di Boston messi in atto dai fratelli Tsarnaev.
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