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Religion and politics: a difficult marriage
The equation between Islam and politics seems to be accepted as a matter of fact. However, not everyone in the Arab world share this common belief. In the below article, EFD Researcher Giovanni Giacalone tries to clarify the difficult relation between religion and politics.
Il 2011 è stato un anno che ha segnato profondamente la storia del Medio Oriente e del Nord Africa, con lo scoppio delle cosiddette “Primavere Arabe”; rivolte popolari che hanno portato alla caduta dei rispettivi regimi in Egitto, Tunisia e Libia. I primi due paesi, pur contestualmente differenti e con sviluppi post-rivoluzione molto diversi tra loro, si sono avviati entrambi verso un sia pur tortuoso processo di democratizzazione. La Libia invece è ancora oggi in una fase di forte instabilità causata dalla totale incapacità da parte di istituzioni pressochè inesistenti, di mantenere il controllo del paese, ormai frammentato in più fazioni. Diversa la situazione in Siria in quanto il regime di Bashar al-Assad è ancora al potere e il paese si trova nel mezzo di una sanguinosa guerra civile da ben tre anni.
Grande protagonista del post “Primavera Araba” è stato l’Islam politico, come dimostrano i casi di Egitto e Tunisia, con i rispettivi partiti Freedom and Justice e Ennahda che si sono però dimostrati totalmente incapaci di far fronte alle esigenze della popolazione e di gestire una situazione politica e sociale estremamente complessa, tanto che i due paesi sono arrivati sull’orlo della guerra civile.
Come afferma Khaled Fouad Allam:
“La Primavera araba ha portato le forze politiche dei paesi interessati dalle rivolte a confrontarsi con la fondamentale questione del significato che può avere la democrazia in un contesto islamico e di come agire per favorire lo sviluppo delle dinamiche democratiche in quell’area. È uno scenario inedito per il mondo arabo, in cui, per la prima volta, sono i protagonisti dell’Islam politico a dover cercare l’equazione tra Islam e democrazia”.
A questo punto credo valga la pena di esaminare un’ulteriore equazione, valutando il grado di compatibilità tra politica e religione. E’ opinione diffusa che nell’Islam l’aspetto religioso e quello politico non possano essere separati in quanto Corano e Sunna sono ritenuti unica fonte sia dottrinaria che politico-legislativa.
Non tutti la pensano però così all’interno del mondo islamico, come ad esempio il magistrato egiziano Said al-Ashmawi, grande giurista islamico contemporaneo, il quale afferma che la religione non può essere utilizzata come politica poiché la religione eleva mentre la politica corrompe, limita, divide, uccide. Un altro noto pensatore islamico contrario all’Islam politico è il sudanese Abdullahi Ahmed An’Naim, il quale afferma l’incompatibilità di pratiche risalenti al VII secolo d.C. con la realtà del XXI secolo. An-Naim è un convinto sostenitore della laicità, in cui uno stato neutrale legifera e tutela tutti i cittadini, lasciando che possano professare liberamente la propria religione.
A questo punto è importante chiarire cosa si intende col termine “religione”. Secondo il Prof. Gabriele Mandel “la fede è un fatto intimo, personale, un dono di Dio all’anima, mentre la religione è uno strumento per vivere la fede di cui costituisce una organizzazione sistematica con conseguenti influssi sociali e politici. La storia ci documenta inoltre che la religione ha spesso anche valenza di mezzo di controllo e gestione delle masse”. Inoltre in ogni religione vi è un contenuto e una forma: “il contenuto si riferisce allo spirito, determinato sia dalla comunicazione con Dio sia dal sentire Dio in se. La forma è determinata dalla lettera e a sua volta stabilisce la legge (canone, regole prescrizioni) e per mantenere prescrizioni e regole “costringe”; e in casi di assolutismo fanatico può anche giungere a uccidere chi non osserva la legge”.
Sono i recenti fatti nell’area mediorientale a fornire alcuni esempi, con squadracce di fanatici che pretendono di impersonificare la volontà divina e accusano tutti coloro che si discostano dalla loro visione politico-religiosa di apostasia; accusa che in certi paesi può sfociare in una condanna a morte.
Dunque la religione in sé stessa può essere intesa come burocratizzazione della fede, ragion per cui la politica derivata da una visione prettamente religiosa e dottrinaria non è altro che la sistematizzazione di un impulso mistico individuale che non può essere posto a base di regole di condotta generalizzate.
Il nemico mortale della conoscenza non è la fede in sé stessa quanto il dogmatismo religioso che impone di credere in qualcosa in quanto verità assoluta; una “verità” spesso prodotta a partire da interpretazioni particolari delle scritture legate a determinati contesti storici, sociali e culturali. Come affermava il Prof. Nasr Hamid Abu Zayd: “Si è diffusa la convinzione che debbano esservi spazi protetti, luoghi inaccessibili al dibattito intellettuale o all’indagine accademica. La ricerca accademica e la libertà di pensiero e di espressione sono garantite soltanto nella misura in cui non interferiscono con quella che è riconosciuta come la verità assoluta”.
Bisogna poi tener presente che la religione può diventare un importante strumento di controllo sociale, politico ed anche economico, uno strumento di oppressione che in molti casi è finito per perseguire obiettivi tutt’altro che spirituali, facendo gli interessi di pochi a discapito dei tanti e legittimando sanguinari regimi teocratici. La religione può dunque andare contro valori universali chiave del genere umano come la libertà di coscienza e l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani a prescindere da sesso, razza o credo. Karl Marx definì la religione come ”oppio dei popoli” in quanto porta ad accettare le ingiustizie del mondo terreno nell’attesa di un mondo celeste a venire. Una visione che aliena l’uomo e finisce per legittimare passivamente l’oppressione nello status quo. Siamo però giunti al punto in cui è la religione stessa in certi casi, una volta prese le redini del potere, a generare oppressione e disuguaglianza tra gli uomini.
Possono dunque elementi politici e legislativi legati a una specifica visione religiosa essere universalmente condivisi? Può il dogmatismo garantire libertà di religione ma anche libertà dalla religione?
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