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The crisis in Yarmouk and the silence of pro-Palestinian activists

03 March 2014

Giovanni Giacalone on the humanitarian crisis in the Palestinian refugee camp of Yarmouk, Damascus.

IL GRAFFIO – Un campo di concentramento a cielo aperto, questo è ormai Yarmouk, una volta una cittadina di 120,000 abitanti, tutti profughi palestinesi, a pochi kilometri dal centro di Damasco.

Oggi di Yarmouk è rimasto soltanto un ammasso di macerie, una trappola mortale dove sono imprigionate decine di migliaia di palestinesi rimasti per mesi senza cibo e medicinali. Le agghiaccianti immagini della scorsa settimana parlano chiaro; in massa i palestinesi stremati (nella foto), ammassati uno sull’altro ma ancora speranzosi, che escono dall’assedio del campo profughi per ricevere i primi aiuti dell’Unwra, l’agenzia dell’Onu per il Soccorso e l’Occupazione. Filippo Grandi, capo dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi ha definito così il campo: “dentro Yarmouk neppure una casa è rimasta in piedi, non c’è un muro che non sia annerito dall’esplosione delle granate e dei proiettili…è una città di fantasmi in preda alla paura dopo mesi e mesi di combattimenti”.

Yarmouk venne fondata nel 1957 su un’area di circa 2 km quadrati nella periferia sud di Damasco, a 8km dal centro. Anche se i cartelli la indicavano come “Mukhayyam al-Yarmouk” (campo di Yarmouk), dal punto di vista amministrativo si trattava di una vera e propria cittadina facente parte della municipalità di Damasco. Una cittadina in condizioni di gran lunga migliori rispetto agli altri campi profughi palestinesi, sia in altre zone della Siria che in Giordania e Libano. La BBC l’ha descritta come una zona residenziale con bar, locali, parrucchieri, internet cafe, dove vivevano e lavoravano molti professionisti, medici, ingegneri. A Yarmouk erano presenti anche quattro ospedali e numerose scuole secondarie dello Stato.

Dal 2001, inoltre, Damasco era diventata la base di Khaled Mashal, leader del braccio politico di Hamas, organizzazione palestinese foraggiata anche dal regime siriano. Nel 2012, in seguito allo scoppio della guerra civile siriana, Mashal si è trasferito in Qatar, voltando le spalle al regime di Assad e schierandosi a favore dell’opposizione.

A questo punto si sono create divisioni all’interno del contesto palestinese in Siria: da una parte i militanti palestinesi fedeli alla linea di Hamas, quindi all’Esercito Libero Siriano e anti-Assad, dall’altra il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Comando Generale, del defunto Ahmed Jibril. A farne le spese sono stati ancora una volta i palestinesi che, pienamente integrati in Siria, frequentavano le scuole, lavoravano, gestivano attività commerciali.

Con lo scoppio della guerra molti di loro hanno scelto da che parte stare: con l’opposizione e dunque dovevano essere punti. E’ così scattata la rappresaglia del regime; Yarmouk è stata presa sistematicamente di mira dall’esercito regolare siriano e strozzata da una serie di pesanti restrizioni sulle operazioni umanitarie. Poco importa se a morire di fame sono donne, anziani, bambini palestinesi, agli occhi del regime sono tutti ugualmente colpevoli di non essersi schierati con Assad.

Per loro però ben poche sono state le espressioni di solidarietà da parte di quegli ambienti che sono sempre pronti a far sentire la propria voce quando lo scontro mette di fronte israeliani e palestinesi, ma che diventano latitanti quando i palestinesi diventano vittime di altri arabi; nessuna “Freedom Flotilla”, nessun gruppo di attivisti internazionali come quelli presenti da più di cinque anni in Cisgiordania, a “Nabi Salah” e “Bilin”, nessuno di loro si sogna di avvicinarsi a Yarmouk. Dopotutto, oltre al discorso prettamente ideologico da rimettere in discussione, a Damasco fanno sul serio, li si rischia di sparire, di morire sul serio.


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