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Turkey, a living hell for journalists

10 February 2014

Erdogan’s government is now far from being a model for democracy and modernity in the Islamic world. These are EFD Researcher Giovanni Giacalone’s words, which draw attention to the large scale arrest of journalists in Turkey.

 

L’ANALISI - Deportazioni, blocco di siti internet, gas lacrimogeno e manganelli; queste sono le politiche del governo Erdogan per contrastare il dissenso. Un fatto gravissimo che sta mettendo ancora una volta in serio imbarazzo l’esecutivo turco dopo lo scandalo-corruzione dello scorso dicembre che aveva visto coinvolti molti imprenditori vicini all’esecutivo, i figli di tre ministri e diversi funzionari pubblici.

Mehir Zeynalov, giornalista del quotidiano turco “Today’s Zaman” e collaboratore di al-Arabiya, da tempo collocato in una inquietante lista governativa di cittadini stranieri considerati un “pericolo” per la pubblica sicurezza, è stato ufficialmente deportato nel suo paese di origine, l’Azerbaijan, secondo quanto previsto dalla legge numero 5683. L’unica colpa di Zeynalov è stata quella di aver postato sul suo account di Twitter alcune critiche al governo Erdogan. Un triste primato nella storia del giornalismo e una macchia indelebile sull’attuale esecutivo turco che sta facendo di tutto per essere ricordato come uno dei governi peggiori della storia del paese.

Le autorità turche hanno oltretutto violato diverse leggi visto che Zeynalov aveva il permesso di soggiorno valido fino al 10 marzo con l’aspettativa di rinnovarlo per un altro anno per motivi di lavoro. Il giornalista è inoltre sposato con una cittadina turca, dunque legalmente autorizzato a vivere nel paese e a richiedere la cittadinanza. Questo giusto per smentire la versione secondo cui Zeynalov sarebbe stato espulso a causa della scadenza del permesso di soggiorno.

Il giornalista ha inoltre raccontato su al-Arabiya che, per poter essere espulso, ha persino dovuto pagare una multa perché si è consegnato alla polizia aeroportuale, mentre invece le procedure richiedono che il deportato sia arrestato presso la propria abitazione. Una mescolanza di drammatico e ridicolo che sta mettendo in serio imbarazzo la Turchia. Mehir Zeynalov non è stato espulso perché rappresentava un pericolo per la pubblica sicurezza della Turchia, ma piuttosto per Erdogan e il suo entourage. Il giornalista ha osato criticare l’esecutivo e ne ha pagato le conseguenze.

Già nel 2013 il giornalista azero era finito nell’occhio delle autorità turche per aver denunciato il tentativo del governo Erdogan di porre un freno alle indagini anti-corruzione che avevano coinvolto diversi esponenti del suo entourage. Su ordine del governo numerosi ufficiali di polizia che si stavano occupando delle indagini erano stati estromessi dai propri incarichi. Secondo il Committee to Protect Journalists di New York, la Turchia è una delle più grandi “galere per giornalisti” del mondo, assieme a Cina ed Eritrea, con 40 arresti soltanto nel mese di dicembre 2013 e numerose violenze commesse dalla polizia, come sa bene anche il reporter italiano Mattia Cacciatori. Come se non bastasse, il parlamento turco ha approvato una legge che permette al governo di bloccare pagine internet in poche ore e senza il requisito di passare per la magistratura. I dati degli utenti verranno inoltre collezionati e mantenuti per due anni in modo da essere a disposizione della autorità.

Il popolo turco è immediatamente sceso in piazza per protestare contro l’ennesimo tentativo di censura messo in atto dal governo Erdogan e le autorità hanno risposto con manganelli, idranti e gas lacrimogeno. Lo scorso giugno, durante le proteste di piazza Taksim, la Contemporary Lawyers Association aveva denunciato l’arresto da parte della polizia turca di almeno 70 avvocati che avevano protestato contro l’operato delle forze dell’ordine e contro l’arresto di alcuni loro colleghi che avevano difeso i manifestanti. Uno scenario drammatico quello di quest’estate, con un bollettino di guerra spaventoso, donne picchiate, manifestanti gasati, tra cui molti minori, bulldozer che rincorrevano tutti. Sono ormai lontani i giorni in cui Erdogan veniva presentato dall’Occidente come un modello di “democrazia e modernità” all’interno del mondo islamico.

Oggi l’esecutivo AKP sta assumendo sempre di più le sembianze dei peggiori regimi dittatoriali del Medio Oriente; gli elementi ci sono tutti: censura, repressione, controllo totale sulle attività investigative e una buona dose di paranoia di stampo complottistico che può sempre risultare utile. Erdogan accusa i manifestanti di essere degli “sciacalli” e dei “fuorilegge” e tira in ballo “gruppi internazionali” e “alleanze oscure” che avrebbero l’obiettivo di colpire il suo governo. Un possibile riferimento al suo ex alleato Fetullah Gulen, sempre più preoccupato per la deriva autoritaria intrapresa dall’esecutivo turco.

Un governo in avanzato stadio terminale quello degli islamisti turchi, ormai privo dei necessari appoggi interni, con buona parte della popolazione contro, con una pessima reputazione a livello internazionale, non soltanto per le gravi questioni interne ma anche per la posizione passiva se non contraddittoria per quanto riguarda la situazione siriana. Un esecutivo che sta inoltre portando il paese ben lontano da un possibile ingresso in Europa.

Per molti aspetti Erdogan ricorda sempre di più il suo vecchio “amico” Mohamed Mursi. La domanda a questo punto è una sola, quanto potrà ancora restare a galla l’agonizzante esecutivo dell’AKP? Fino a che punto Erdogan potrà alzare il livello di repressione e censura?

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